Tutti gli esseri umani hanno diritto all’anima divina, non solo gli Yahùd!
Ank, il soffio vitale d’Aton, Figlio di Ra, il suo Spirito Santo, sarà trasmesso ad ogni cellula uomo. Allora tutti quelli che avranno l’albero della vita originario, fin dall’inizio del mondo, saranno mutati in un lampo, leveranno le mani al cielo per giurare e confermare il patto dell’alleanza con gli Elòim Creatori.
Ank, il soffio vitale d’Aton, Figlio di Ra, il suo Spirito Santo, sarà trasmesso ad ogni cellula uomo. Allora tutti quelli che avranno l’albero della vita originario, fin dall’inizio del mondo, saranno mutati in un lampo, leveranno le mani al cielo per giurare e confermare il patto dell’alleanza con gli Elòim Creatori.
La profezia
Mercoledì 16 giugno 1943. Ore 06.30
Navigava per il Ladakh ormai da un mese e tre giorni, spostandosi in carcasse metalliche traballanti, che recitavano male il ruolo di corriere, in mezzo ad una folla di contadini, pastori e mendicanti. Aveva fatto l’abitudine agli odori penetranti: fetore di pecore e capre, pungenti lezzi di sudore, incensi, spezie e gur-gur tchai, il popolare tè salato con il burro.
Lilly Moreau, non sembrava una donna pericolosa, eppure era un bomba vagante, un incredibile meticciato per un’epoca oscura: archeologa, creola, bellissima, bisessuale, nazionalsocialista, doppiogiochista. Aveva un passaporto americano perfettamente contraffatto. In missione segreta per il III Reich, esplorava le pendici dell’Himalaia, con una specie di mappa imbrunita di pergamena, vergata in caratteri indecifrabili, ripiegata con cura nel reggiseno. Viaggiava per lavoro, fra i bianchi profili delle case di Leh e la maestà del suo palazzo, fra le umili case del villaggio di Choklmasar, con i tetti di lamiera e le file di Stupa addormentati, cinti da greggi di capre brucanti sui polverosi panorami di ciottoli. L’aveva tirata fuori varie volte, la pergamena, come una sorta di lasciapassare per le più importanti lamaserie, come ad Atitse, sperando che quel documento aprisse finalmente un varco verso il cielo o, forse, verso l’inferno. Nessuno li aveva reputati degni d’attenzione, quei due, trattandoli da semplici turisti; nessuno, neppure ad Alchi, Thiktse ed Hemis, dalle candide, massicce, mura e dai sontuosi balconi di legno intagliato.
Dopo qualche curva la corriera si fermò e lasciò la coppia in mezzo al nulla. Avrebbero continuato a piedi, affrontando un sentiero impervio, per raggiungere una modestissima lamaseria, fuori d’ogni rotta turistica e devozionale. Lilly ed il suo compagno, seguirono la guida, silenziosi, con gli occhi rossi, irritati dal vento e dal sonno. Il sole rovente e tormentoso, dominava un cielo astratto, di un blu intenso. Salivano, sbuffavano, l’atmosfera era sempre più rarefatta, mentre le creste color ocra, rosse e bianche, sfilavano lentamente, osservandoli, mute, cariche di un misterioso retaggio, impenetrabile alle loro menti occidentali. Erano simili ad eremiti di granito, posseduti dalla meditazione, capaci di restare immobili per giorni, mesi, anni, secoli. Finalmente il segnale: quella faticosissima gita stava volgendo al termine. Su picchi rocciosi ancora lontani, sventolavano millenarie bandiere di preghiera; sembravano uno stormo di fantasmi nei loro variopinti lenzuoli, sbattuti dal vento e gridavano i loro colori, lacerando l’uniformità dell’orizzonte.
Un monaco di mezza età, coperto di una lunga veste rossa violacea, sedeva su una panca nei pressi del portone. Teneva fra le mani un gigantesco rosario di legno e pregava, ad occhi chiusi. Li aprì e guardò inespressivo i nuovi venuti; non sorrise, lanciò solo un’occhiata più attenta alla ragazza, riconoscendo in lei una perfetta incarnazione della lussuria di Maya, il demone dell’Illusione. Non si scompose, ma captò un magnetismo particolarmente forte, che si traduceva in una naturale capacità di seduzione, prossima alla pornografia. I vestiti sporchi e l’aspetto trasandato non nascondevano quel corpo flessuoso e prorompente che gli stava comunicando eleganza e passione. Il sudore e la polvere non riuscivano a vincere il profumo naturale della sua pelle color caffé latte: tutto in lei sollecitava rosseggianti ardori di desiderio.
Lilly Moreau, cullando leggermente la testa, gli mostrò il passaporto americano, insieme alla pergamena annerita, dove si allineavano antichi caratteri tracciati in bella calligrafia e un disegno geometrico in inchiostro viola. Poi si umettò le labbra rosse e carnose. Aspettò: con un solo movimento impercettibile lo lusingò, facendolo sentire al centro del mondo. Il monaco la rigirò fra le mani varie volte, osservandola con inquietudine: “Questo no sanscrito, tibetano o cinese ma lingua antichissima”, disse in un inglese indecente, mentre avvertiva sapore di sesso fra i denti. Desiderava la ragazza e immaginò di mandare al diavolo una vita di rinunce, preghiere, distacco dal mondo. Per un istante pensò che il nirvana potesse aspettare il prossimo giro di ruota. Poi si riscosse e balzò in piedi; agitato, aprì l’enorme portone cigolante, spingendolo a fatica e si lasciò inghiottire dalle mura del monastero. La pergamena era, forse, più vitale dell’erotismo tantrico. Ricomparve dopo pochi minuti, accompagnato da un religioso anziano: fiero, dritto, vigoroso. Il vecchio saggio, li salutò, con voce profonda, parlando perfettamente la lingua della bella Albione: “Sia sempre il benvenuto, chi recapita alla giusta porta la retta richiesta.” “Lei conosce la lingua di quella mappa?” chiese stupita Lilly Moreau.
“Non è una mappa: è un testo sacro scritto in un idioma indecifrabile, che appartiene ad una civiltà scomparsa. Alcuni sostengono che i documenti più antichi racchiudano la saggezza, ma nessuno lo saprà mai, finché non si troverà il modo di decifrarli”.
“Allora, vecchio, non sai tradurlo, porco schifo!” Chiese sgarbatamente l’accompagnatore della ragazza.
“Ti risponderò con una certezza, uomo gentile. Forse.”
“Che cosa significa?”
“E’ vostro diritto osare, rischiando di non intendere. E’ nostro dovere ignorare, annunciando l’imperscrutabile; solo questo l’eremita dei giorni può rivelare“.
“Il solito ciarpame mistico”, disse l’energumeno nazista. “Andiamocene, archeologa dei miei stivali. Forza, zaini in spalle!”, intimò al portatore.
Il monaco non si alterò minimamente. “No, no, restate, prego, seguitemi, miei stanchi ospiti, anche noi siamo affaticati, vi aspettavamo da un mese.” “Scusateci per il ritardo, padre santo”, disse ironica Lilly Moreau.
Navigava per il Ladakh ormai da un mese e tre giorni, spostandosi in carcasse metalliche traballanti, che recitavano male il ruolo di corriere, in mezzo ad una folla di contadini, pastori e mendicanti. Aveva fatto l’abitudine agli odori penetranti: fetore di pecore e capre, pungenti lezzi di sudore, incensi, spezie e gur-gur tchai, il popolare tè salato con il burro.
Lilly Moreau, non sembrava una donna pericolosa, eppure era un bomba vagante, un incredibile meticciato per un’epoca oscura: archeologa, creola, bellissima, bisessuale, nazionalsocialista, doppiogiochista. Aveva un passaporto americano perfettamente contraffatto. In missione segreta per il III Reich, esplorava le pendici dell’Himalaia, con una specie di mappa imbrunita di pergamena, vergata in caratteri indecifrabili, ripiegata con cura nel reggiseno. Viaggiava per lavoro, fra i bianchi profili delle case di Leh e la maestà del suo palazzo, fra le umili case del villaggio di Choklmasar, con i tetti di lamiera e le file di Stupa addormentati, cinti da greggi di capre brucanti sui polverosi panorami di ciottoli. L’aveva tirata fuori varie volte, la pergamena, come una sorta di lasciapassare per le più importanti lamaserie, come ad Atitse, sperando che quel documento aprisse finalmente un varco verso il cielo o, forse, verso l’inferno. Nessuno li aveva reputati degni d’attenzione, quei due, trattandoli da semplici turisti; nessuno, neppure ad Alchi, Thiktse ed Hemis, dalle candide, massicce, mura e dai sontuosi balconi di legno intagliato.
Dopo qualche curva la corriera si fermò e lasciò la coppia in mezzo al nulla. Avrebbero continuato a piedi, affrontando un sentiero impervio, per raggiungere una modestissima lamaseria, fuori d’ogni rotta turistica e devozionale. Lilly ed il suo compagno, seguirono la guida, silenziosi, con gli occhi rossi, irritati dal vento e dal sonno. Il sole rovente e tormentoso, dominava un cielo astratto, di un blu intenso. Salivano, sbuffavano, l’atmosfera era sempre più rarefatta, mentre le creste color ocra, rosse e bianche, sfilavano lentamente, osservandoli, mute, cariche di un misterioso retaggio, impenetrabile alle loro menti occidentali. Erano simili ad eremiti di granito, posseduti dalla meditazione, capaci di restare immobili per giorni, mesi, anni, secoli. Finalmente il segnale: quella faticosissima gita stava volgendo al termine. Su picchi rocciosi ancora lontani, sventolavano millenarie bandiere di preghiera; sembravano uno stormo di fantasmi nei loro variopinti lenzuoli, sbattuti dal vento e gridavano i loro colori, lacerando l’uniformità dell’orizzonte.
Un monaco di mezza età, coperto di una lunga veste rossa violacea, sedeva su una panca nei pressi del portone. Teneva fra le mani un gigantesco rosario di legno e pregava, ad occhi chiusi. Li aprì e guardò inespressivo i nuovi venuti; non sorrise, lanciò solo un’occhiata più attenta alla ragazza, riconoscendo in lei una perfetta incarnazione della lussuria di Maya, il demone dell’Illusione. Non si scompose, ma captò un magnetismo particolarmente forte, che si traduceva in una naturale capacità di seduzione, prossima alla pornografia. I vestiti sporchi e l’aspetto trasandato non nascondevano quel corpo flessuoso e prorompente che gli stava comunicando eleganza e passione. Il sudore e la polvere non riuscivano a vincere il profumo naturale della sua pelle color caffé latte: tutto in lei sollecitava rosseggianti ardori di desiderio.
Lilly Moreau, cullando leggermente la testa, gli mostrò il passaporto americano, insieme alla pergamena annerita, dove si allineavano antichi caratteri tracciati in bella calligrafia e un disegno geometrico in inchiostro viola. Poi si umettò le labbra rosse e carnose. Aspettò: con un solo movimento impercettibile lo lusingò, facendolo sentire al centro del mondo. Il monaco la rigirò fra le mani varie volte, osservandola con inquietudine: “Questo no sanscrito, tibetano o cinese ma lingua antichissima”, disse in un inglese indecente, mentre avvertiva sapore di sesso fra i denti. Desiderava la ragazza e immaginò di mandare al diavolo una vita di rinunce, preghiere, distacco dal mondo. Per un istante pensò che il nirvana potesse aspettare il prossimo giro di ruota. Poi si riscosse e balzò in piedi; agitato, aprì l’enorme portone cigolante, spingendolo a fatica e si lasciò inghiottire dalle mura del monastero. La pergamena era, forse, più vitale dell’erotismo tantrico. Ricomparve dopo pochi minuti, accompagnato da un religioso anziano: fiero, dritto, vigoroso. Il vecchio saggio, li salutò, con voce profonda, parlando perfettamente la lingua della bella Albione: “Sia sempre il benvenuto, chi recapita alla giusta porta la retta richiesta.” “Lei conosce la lingua di quella mappa?” chiese stupita Lilly Moreau.
“Non è una mappa: è un testo sacro scritto in un idioma indecifrabile, che appartiene ad una civiltà scomparsa. Alcuni sostengono che i documenti più antichi racchiudano la saggezza, ma nessuno lo saprà mai, finché non si troverà il modo di decifrarli”.
“Allora, vecchio, non sai tradurlo, porco schifo!” Chiese sgarbatamente l’accompagnatore della ragazza.
“Ti risponderò con una certezza, uomo gentile. Forse.”
“Che cosa significa?”
“E’ vostro diritto osare, rischiando di non intendere. E’ nostro dovere ignorare, annunciando l’imperscrutabile; solo questo l’eremita dei giorni può rivelare“.
“Il solito ciarpame mistico”, disse l’energumeno nazista. “Andiamocene, archeologa dei miei stivali. Forza, zaini in spalle!”, intimò al portatore.
Il monaco non si alterò minimamente. “No, no, restate, prego, seguitemi, miei stanchi ospiti, anche noi siamo affaticati, vi aspettavamo da un mese.” “Scusateci per il ritardo, padre santo”, disse ironica Lilly Moreau.